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Manifestazione contro il G8: Genova 2001

Quando Donatella ci chiese se avrebbero potuto, lei e Aurora, aggregarsi a noi per andare a manifestare a Ge­nova quel sabato, sia io che Andres fummo molto felici. Andres, oltre al piacere della compagnia, per la precisio­ne commentava «…almeno qualcuno mi aiuterà a farti stare un po’ zitta!».
Già, la mia idea di spazio personale per esprimermi è ormai sconfinata nel cosmico e comunque la capacità di sintesi non è mai stata il mio forte!
Ore sette, appuntamento in piazza a Brebbia e partenza (quasi) puntuale, dopo aver nascosto accuratamente il caschetto da amazzone di Aurora e le varie penne a sfera, uniche ma micidiali armi contundenti che, visto il clima che si era creato, avrebbero potuto costarci caro.
Le carote portate da casa non bastano e le nostre pance, soprattutto quella dell’adolescente e famelica Aurora, non dimenticano la sosta in autogrill per uno spuntino, mal digerito pensando alla famiglia Benetton... e nel frat­tempo parliamo di tutto quello che, ci dicono, è successo nei giorni scorsi, ma siamo comunque ottimisti e io sono gasatissima, perché tutto procede bene.
Già. Fino alla diramazione Milano Livorno, quando il conducente, io, dice «Dovremo mica andare verso Livorno?», ma i miei compagni, all’unanimità, mi boc­ciano l’idea e così continuiamo e lasciamo l’autostrada non ricordo più dove, ma comunque all’ultima uscita di Genova.
Nessuno su quest’ultimo tratto di autostrada.
Nessuno al casello.
Il casellante, un poco diffidente, alla nostra domanda («Scusi, dove siamo?») risponde che sicuramente ab­biamo sbagliato uscita, ma non si prodiga in consigli su come raggiungere la meta.
Nessuno nemmeno sulla strada che ci porta diritti al porto di Genova.
Non un’auto, un gabbiano, un essere umano… un poli­ziotto perdio! Nessuno.
Il guidatore, sempre io, esprime serie perplessità sul pa­esaggio da The Day After, sbiadito ricordo di decenni fa rispolverato per l’occasione, e propone di girare i tacchi e rientrare in autostrada, prima di leggere sui giornali: “Atos rossa con quattro occupanti di chiara estrazione comunista viola la Zona Rossa”, sottotitolo “Le forze dell’ordine hanno prontamente reso innocui i pericolosi sovversivi”.
Comunque, intanto che io fantastico, i miei compagni bocciano, sempre all’unanimità, anche questa idea e propongono di proseguire.
Semaforo rosso, e sempre nessuno in vista, tranne un camionista che se ne sta quieto a scaldare il sedile della sua motrice.
Il conducente, io, decide di domandare dove cavolo siamo, perché «Ragazzi, secondo me è la Zona Rossa!», quindi mi accosto, saluto molto educatamente (troppo…) e porgo la fatidica domanda: «Mi scusi, ma questa è la Zona Rossa?». A sorpresa (ma non più di tanto) lui ci risponde con aria grave: «Eh sì, dovete tornare indietro!»
Panico.
Riflessione: ce ne dobbiamo andare alla svelta!
«Senta scusi, qual è la strada più veloce per uscire da ‘sto posto?»
Il camionista ce la spiega un po’ insospettito e molto fret­toloso, giriamo con calma la Atos (giusto dopo aver fatto qualche foto ricordo, tanto per attirare un po’ l’attenzio­ne, perché si capisce, io avevo fretta di andarmene, ma i miei compagni, unanimemente concordi, pare proprio di no!).
Mentre sperimentiamo la sensazione da War Games (altro ricordo di vecchia data rispolverato per l’evento, ora che abbiamo violato la Zona Rossa con una facilità incredibi­le, come nel film!), al semaforo ci si affianca un ragazzo con lo scooter. Sul pianeta Genova allora esiste la vita! Ma chi sarà? Digos? Servizi segreti? Agente in borghese? Tecnico dell’Enel chiamato da Palazzo Ducale per un Black Bloc… cioè, volevo dire, per un black out?
Rifacciamo la stessa domanda, nella speranza di scoprire che non siamo in pericolo e che il camionista o era ubria­co oppure ci aveva presi per il culo, e il ragazzo ci rispon­de (molto divertito) che non siamo nella Zona Rossa.
Sollievo.
Bene, ora che il mio cuore è tornato a battere mi sembra giusto fare dietrofront e ripartire alla volta di Genova Nervi, ovviamente dopo un giro turistico (votato, guar­dacaso, all’unanimità, dai miei compagni di viaggio) che ci permette di vedere coi nostri occhi le gelide barriere di container, reti e filo spinato che circondano la famige­rata Zona Rossa… ma chi ha potuto rinchiudere quegli otto poveretti all’interno di questo anacronistico campo di concentramento?
Allontanate con sollievo le mie fantasie che davano dieci a uno la Atos rossa circondata da orde di celerini in assetto da guerra che ci spiccicavano in faccia armi micidiali e fantascientifiche intimandoci la resa (…siamo in guerra? …resa da che?), riprendiamo l’autostrada,
Giunti a Genova (ah, ricordo ancora quando si veniva col mi’ babbo che correva in bicicletta e si facevano delle memorabili mangiate dal Ricciardi, anfitrione storico che dimorava sulle colline sopra la città) nella desolazio­ne più totale, avvistiamo una panetteria aperta e proprio di fianco un tabacchino aperto, così decidiamo che quello è il posto giusto per parcheggiare (ovviamente in divieto di sosta, tanto, in questi giorni, a chi gli importa di un cavolo di divieto di sosta?).
Ci dividiamo equamente i compiti e, mentre Donatella e Aurora si occupano degli approvvigionamenti alimenta­ri, io e Andres facciamo scorta di sigarette.
Incontriamo un ragazzo di Zurigo (o Lugano?) che ci racconta un po’ come ha vissuto questi giorni: ieri, dice, non si capiva più niente, e la gente che girava per Geno­va in quelle ore era semplicemente divisa in chi caricava, chi veniva caricato e chi rompeva vetrine e coglioni ma arrivava a sera puntualmente indenne e pronto a nuove scorrerie.
Ecco, non ci ha confortato granché, quel simpatico svizzerotto, ma che si fa? Siamo qui, non ci si tira mica indietro per così poco… o no? Così ci avviamo in una direzione sconosciuta ma presumibilmente giusta (orde di barbari militanti di sinistra andavano “verso di là” e supponevamo o speravamo che qualcuno sapesse più di noi dov’era il punto di ritrovo) e non tralasciamo di chiedere una ventina di volte a cani e porci dov’è via Pisa: ma dove cazzo è ‘sta famigerata via Pisa, punto d’incontro dei manifestanti Lillipuziani? Meno male che troviamo una pia donna che ci indirizza verso il punto d’incontro giusto… fosse stato per Gianfranco, rimasto comodamente seduto al quartier generale a Varese, oggi vagheremmo ancora alla ricerca di un punto di aggrega­zione che in realtà non era mai esistito!
Intanto commentiamo sul fatto che i genovesi ci paiono troppo ben disposti e preoccupati di aiutarci a raggiun­gere i nostri compagni, rispetto a quanto ci aspettavamo in seguito alla campagna mediatica che ha rilasciato terrore in forma gassosa in tutto il mondo, riguardo alla manifestazione contro il vertice dei G8. Bene, le premes­se tornano a essere molto buone.
Finalmente, congiungendoci cammin facendo a una fiumana incredibile di gente pacifica, colorata e festosa (per quanto si potesse esserlo, ricordando l’uccisione del povero Carlo, avvenuta il giorno prima per mano di un appartenente alle “forze dell’ordine” - non so decidere se sia peggio la parola “forza” o la parola “ordine” - di­cevo, di Carlo Giuliani, prima vittima italiana del regime globale, instaurato in Italia sotto il nome ingannevole di Seconda Repubblica, raggiungiamo Albano-o-qualcosa-di-simile, punto di partenza del corteo, programmata per le quattordici.
Siamo tutti tranquilli, chiacchieriamo e ci sentiamo già protagonisti di qualcosa di colossale, di un movimento di persone diversissime per estrazione sociale, cultura­le, religiosa, per età ed appartenenza partitica. Ci sono striscioni multicolori, slogan memorabili per l’originalità e una incredibile solidarietà umana pervade spontanea e incontrastata tutti noi.
Una volta convinta Donatella a stare vicina solo moral­mente alle suore che digiunavano a Boccadasse, dove era impensabile arrivare anche solo per un salutino, le nostre pance tornano a farsi sentire e, raggiunti finalmen­te i compagni Lillipuziani, troviamo un bellissimo parco e ci proponiamo di mangiare un boccone e poi svenire in santa pace: abbiamo già percorso parecchia strada, e io in più non mi sono ancora abituata ad avere una distrofia muscolare (sorpresa per il mio trentesimo compleanno) ... ma questa è un’occasione speciale!
«Si chiude!»
Cazzo, il custode del parco! Proprio ora che ho addentato la pizza e un rivolo di pomodoro freschissimo mi scivola sul mento! Che disdetta… e che palle! Che fare... usciamo e raggiungiamo un gruppone di altri esaltati mangia­bambini, e siccome ci dicono che siamo in tantissimi e non c’è modo di collocarci tutti da qualche parte in attesa delle quattordici, cominciamo subito a organizzarci e a compattarci, per partire in anticipo… sono solo le dodici.
Partenza.
Ora dobbiamo congiungerci al corteo principale, partito da tempo, in maniera più agevole possibile, così percor­riamo una strada laterale.
D’un tratto tutto tace: si passa la voce di stare nel più assoluto silenzio perché tra noi e il corteo ora si è schie­rato un esagerato numero di celerini, di cui vediamo i caschetti blu puffo.
Ma non siamo Lillipuziani? Io sono piuttosto nuova di ‘sta organizzazione (che, detto fra noi, mi dà un po’ il latte alle ginocchia…), ma non siamo pacifisti? Che vogliono?
Qualcuno va a parlare ai poliziotti e continuano intanto ad arrivare voci di stare sempre in silenzio e di pazien­tare, che ora sposteranno le camionette e ci faranno passare. E meno male! Che intenzioni avevano? Di sequestrarci senza motivo tra via Pinco e via Pallino (eh già, non so proprio dove siamo!)?
Finalmente i celerini si spostano e proseguiamo, passan­dogli in mezzo, mentre loro pare ci sorveglino pronti a fermarci in qualunque momento.
Silenzio di tomba.
Improvvisamente qualcuno inizia a battere le mani in modo ritmato, poi lo facciamo tutti insieme (e siamo tanti!), e nonostante i trentacinque gradi di questo 21 luglio ho dei brividi di gioia che mi corrono lungo la schiena, e penso a quel suono prodotto da migliaia di mani diverse che riecheggia all’unisono tra i palazzi sprangati. Ecco il corteo! Tutti si fermano e iniziano ad applaudire e ad incitarci a raggiungerli, alziamo tutti le mani per aria e corriamo incontro ai nostri compagni! Sono ebbra di emozione, di gioia, tutti cantano e applau­dono e l’accoglienza non poteva essere migliore! Guardo Andres e con le lacrime agli occhi ci abbracciamo... una sensazione così non l’avevo mai provata e non la dimenticherò mai: siamo parte di qualcosa di talmente bello, importante e imponente che ci fa sentire vivi come non mai.
Andres fa il duro, ma io lo conosco: è molto emozionato, ma la preoccupazione per la mia salute come sempre non gli permette di vivere appieno questa esperienza. Mi sento molto in colpa per questo, ma amare è inevitabile che comporti più o meno limitazioni alle proprie libertà, imposte (nulle nel nostro caso) o meno.
E comunque sono limitazioni che scegliamo noi se accet­tare o trovare il modo di schivare, o rifiutare.
Comunque, iniziamo a camminare nel corteo, e iniziano le canzoni, i cori, lo scambio di esperienze con chi cammi­na al nostro fianco... siamo tutti sconosciuti gli uni per gli altri ma gli ideali che abbiamo ci fanno sentire fratelli.
Facciamo a turno per formare dei cordoni laterali al cor­teo con l’imperativo “Non entra nessuno”: così il Genoa Social Forum ha deciso di gestire la propria autodifesa (per quanto possibile) dalle infiltrazioni dei Black Bloc. Eravamo ancora tanto ottimisti da credere che questa azione ci avrebbe tenuto lontano dai casini e dalle cariche.
Nel frattempo ci sentiamo al telefono con Varese dove l’ufficio stampa allestito in pieno centro storico cerca di proseguire la propria attività… certamente saranno in difficoltà: manco io! Ma ci si telefona anche tra semisco­nosciuti, giusto per capire come butta la faccenda.
Ad un certo punto noi decidiamo di staccarci dal corteo ed aspettiamo ai margini di corso Italia di poterci con­giungere con un nutrito gruppo di Lillipuziani che do­vrebbe arrivare dietro al PRC, per restare tutti insieme… siamo in centinaia di migliaia, siamo partiti in anticipo e immancabilmente i disguidi ci sono stati!
Il corteo che ci sfila davanti non finisce più, si perde a vista d’occhio, e anche quando, aiutata da Andres, mi arrampico su una recinzione, non riesco a vederne né la fine né l’inizio, perchè tutto il lungomare brulica di persone. Siamo un fiume in piena che, anche a costo di essere riportato negli argini con i metodi violenti che già sappiamo, continua la sua strada verso il mare. Abbiamo raccolto tutte le forze e stiamo urlando le nostre idee: queste non ce le potranno togliere!
Ci ricongiungiamo finalmente agli altri Lillipuziani e chiediamo notizie degli altri compagni di Rifondazione di Varese, ma gli ultimi aggiornamenti risalgono a quan­do i loro pullman erano bloccati in autostrada insieme ad altre decine.
In lontananza avvistiamo piazzale Kennedy: una marea di gente, bengala a destra e a manca, lacrimogeni a volontà, un fumo della madonna (quella con la “m” mi­nuscola… quell’altra non si sarebbe mai sognata di fare tutto ‘sto casino proprio contro di noi…).
Un po’ di tensione, a dire il vero una gran tensione, inevitabilmente inizia a marciare insieme a noi, e gli elicotteri che ci volano incessantemente sopra la testa non ci tranquillizzano di certo: «Dalla televisione sembra il Vietnam» mi dice Erika che mi chiama da Brebbia per avere notizie. Meno male che non lo è… ma certo è una situazione difficile e totalmente inimmaginabile, nono­stante pensassi di essere preparata...
Ci stiamo però ancora divertendo o almeno facciamo finta di farlo: arrivato da non so dove, inizia a girare un bidone di vernice bianca con cui tutti ci dipingiamo le mani (io, a dire il vero, avevo già fregato tempo prima del gesso a un compagno!), che poi alziamo verso gli eli­cotteri gridando «Genova libera!». Che vogliono da noi, perché volano così bassi? Sembra che vogliano provo­carci, esasperarci, impaurirci… E il guaio è che in fondo stanno riuscendo a farlo. Paura, preoccupazione, fastidio e rabbia iniziano a serpeggiare per le vie di Genova insie­me al nostro corteo.
Molti Genovesi che ci guardano dai palazzi, dietro i nostri pressanti inviti, prendono delle mutande e le sten­dono ai balconi e alle finestre! In barba al cavalier banana (minuscolo voluto) e ai ridicoli divieti di stendere panni alle finestre! Siamo eccitati, e l’ovazione che tributiamo loro è talmente vasta che non credo la dimenticheranno facilmente!
Cominciamo intanto a vedere qualche tipo “sospetto” che risale indisturbato a fianco del nostro corteo… abiti neri, passamontagna, mazza da baseball… ma sono quelli i Black Bloc!? Sono sgomenta dalla tranquillità con cui si muovono quasi isolati questi tizi… Un compagno di Rovereto con cui siamo ormai diventati amici per la vita ci dice «Che ci fa quel tizio con uno specchio su un ba­stone?» e le risposte che diamo sono una più strampalata dell’altra e ridiamo di gusto, dimenticandoci per un atti­mo della tensione che sale, così tralasciamo la questione. Ce ne ricorderemo poi, realizzando che quello specchio (sicuramente uno dei tanti) era servito ai Black Bloc per darsi il segnale di inizio delle “azioni di guerriglia” e per accecare i malcapitati presi di mira, sparando loro negli occhi il sole.
Ci chiediamo intanto come sia possibile, a differenza di tempo prima, che ora non si veda più un celerino che è uno, nelle strade laterali al nostro percorso: dove sono finiti tutti? Chi ferma i Black Bloc? Chi difende Genova? Qualcuno li addita mentre ci passano vicino e iniziano dei coretti «Vattene via, buffone!», «No alla violenza!», «Buuuuhhhh!» ma subito un coordinatore della Rete di Lilliput ammonisce chi ha parlato dicendogli «Abbassate lo sguardo, lasciateli stare, non possiamo fermarli noi!, ricordatevi di ieri quando le abbiamo prese! Non siamo qui per fare casini!»
Incoraggiante… ieri in effetti alcuni dei nostri le han­no prese per davvero, e anche tante. Di conseguenza continuiamo ad interrogarci su dove cazzo sono finiti i celerini…
Io non ne posso più, le gambe mi reggono a stento, mi siedo ogni due minuti appena il corteo rallenta e a turno gli amici mi aiutano ad alzarmi… diobono, non mi ci son ancora abituata a non avere libertà di movimento, quella libertà di movimento che dovrei avere, con il mio carattere! Ma forse è andata bene così… ogni tanto penso che è come se, visto che di testa e di cuore è impossibile fermarmi se non uccidendomi, qualcuno ha ben pensato di darmi almeno un limite fisico. Ma questa volta non mi fermerò davanti a niente! Tiè!
A un certo punto il corteo si ferma completamente, e ci sediamo tutti (deo gratias!) in attesa che si sblocchi la situazione là davanti e si riesca a proseguire, perché per ora non si sa bene che cosa stia succedendo.
Intanto Andres si fa sempre più guardingo e sospettoso… ed è anche combattuto… vediamo i disordini in lontanan­za e siamo tutti molto preoccupati, ma lui in particolare: si sente molto responsabile di me (cosa peraltro non richiesta dalla sottoscritta) ed i ricordi dei tempi remoti (?) quando andava allo stadio ogni domenica gli tornano prepotentemente alla mente. Non sono ricordi belli, sono ricordi che non gli portano altro che una grande voglia di ritirarsi. Ma io non cedo. Vai tu se vuoi, io vado fino in fondo, eccheccavolo! All’unanimità decidiamo di prose­guire. Questa volta siamo davvero tutti d’accordo.
Intanto arrivano notizie sul fatto che la Polizia ha già spezzato il corteo in più punti, e non se ne capisce il motivo. Seguendo l’incoraggiamento di uno di noi (forse del servizio d’ordine della Cgil?) mi incammino controcorrente all’interno del corteo e grido di avanzare compatti e di non lasciare spazi, perché se stiamo tutti insieme, uniti, stiamo tranquilli. Sto scoprendo energie inesauribili e mi stupisco tantissimo di come sia possi­bile che questo accada! Grido con tutte le forze che ho e cerco di fare in modo che la voce passi il più possibile… dobbiamo stare assolutamente compatti. È forse l’unica possibilità che abbiamo di evitare casini.
Giusto dopo aver pensato di essere Ercole, inizio a zoppicare vistosamente… beh, c’era da aspettarselo, ho già resistito troppo. Andres, che finalmente ha realizzato che non cederò, mi fa memorizzare le tattiche migliori per muoversi in situazioni di guerriglia urbana (sempre retaggio dei tempi dello stadio), per evitare di cadere o essere travolta se ci fossero delle cariche: «Aggrappati al primo palo o albero che trovi e non preoccuparti che poi ti prendo io; se siamo nella merda preparati che ti lancio oltre una recinzione: mentre io ti lancio, tu appallottolati e proteggiti la testa con le braccia; evita di cercare rifugio negli androni dei palazzi: sono trappole per topi; mentre scappi guarda solo davanti a te e dove cammini… poi ti ricerco io. Se ci si perde ci si vede alla macchina».
Devo dire che non mi conforta comunque molto il fatto di sapere cosa fare se dovesse succedere qualcosa…
Detto fatto ci rimettiamo in marcia e raggiungiamo piaz­zale Kennedy, assaporiamo il fumo dei primi lacrimogeni e all’improvviso davanti a noi tutti iniziano a correre verso un viale a destra del piazzale. Vedo un cordone formato dal servizio d’ordine di Cgil e Fiom, credo, che argina la ressa nel piazzale e ci grida: «Via da qui, via! Correte!»
Panico: Andres mi tiene e cerca di guidarmi nel casino di gente… siamo smarriti… non sappiamo cosa succede né perché, né dove stiamo andando… Io cammino velo­cemente, perché di correre non se ne parla... Poi piano piano (ma quanto è durato tutto questo? Pochi secondi o qualche ora?) torna la calma, ma ora siamo divisi, sparpagliati, e non vedo più né Donatella né Aurora, sarà successo qualcosa? Dove saranno?
Inaspettatamente un ispettore della Digos (presumo) ci dice al megafono di stare tranquilli, ci stanno facendo deviare in un vicolo sulla sinistra: è un percorso di emer­genza studiato per per evitarci contatti con i disordini. Ci continua a ripetere che ci faranno ricongiungere col resto del corteo.
Non gli crediamo… non so perché ma nessuno di noi si sente al sicuro… le nostre esperienze, dirette o meno, ci hanno insegnato a non fidarci mai troppo.
E a Genova quel giorno non era il caso di fidarsi... ma non abbiamo scelta, lui continua a gridarci di stare cal­mi… ma calmi un cavolo, mica ci fumiamo lacrimogeni invece di sigarette di solito, stronzo! Ma li vedeva quel tizio, circondato dai suoi vassalli precocemente incarta­pecoriti, i Black Bloc che ci passavano di fianco, a loro e a noi, belli neri, armati di tutto punto e, vista l’andatura calma ma decisa, sicuri di essere intoccabili? E perché nessuno faceva niente? Perché i ventimila e più celerini sparsi per la città si preoccupavano di far deviare noi e non di fermare loro? Belle domande, che non facevano altro che aumentare la nostra incertezza nel proseguire. Eravamo tutti sbigottiti dall’aria da padroni che avevano quelli del “blocco nero” (chissà poi che vorrà dire… a parte la predilezione per un abbigliamento drastica­mente cupo…), dall’impressione che fossero molto ben organizzati e che sapessero dove andare, cosa colpire, quando e come farlo.
Vabbé, visto che le nostre ipotesi non trovano riscontri sicuri, torniamo a concentrarci sulla manifestazione; ci ricompattiamo e ci convinciamo di stare calmi, tanto ora il pericolo è passato e ci congiungeremo con gli altri compagni… o no?
Appunto, la risposta è no.
Duecento metri dopo l’incontro con il celerino in bor­ghese (o forse di più, i miei ricordi sono un po’ confusi ora) improvvisamente la carica: pochi metri avanti a noi spuntano poliziotti da ogni dove e sparano lacrimogeni. Un istante prima cammini in una direzione e davanti a te altre decine di persone fanno la stessa cosa, e un istante dopo tu cammini e decine di persone davanti a te iniziano a correre verso di te gridando… e il momento della percezione di questo fatto sembra durare un’eter­nità, un’eternità creata da te, come autodifesa, forse, per cercare il tempo di reagire in maniera ponderata.
Ma adesso è panico davvero, e di ponderare non c’è tempo… cazzo, l’odore dei lacrimogeni o di quel cavolo che è, mi soffoca insieme alla paura, e gli occhi brucia­no… sento qualcuno che mi tiene per il marsupio… è Andres… mi giro, corro… forse sarebbe più veritiero dire che faccio due passi, vedo un lampione e lo abbraccio come avrei fatto con un amico ritrovato dopo decenni… Andres mi fa scudo, anche lui ancorato al palo, mentre la gente ci corre intorno e ci sbatte addosso, i celerini si avvicinano e noi non abbiamo nemmeno un fazzoletto per ripararci dall’odore acre dei lacrimogeni e cerchiamo di sollevare la maglietta sulla faccia per proteggerci un pochino.
A un certo punto Andres mi prende e mi tira via dal palo con la forza… non dice nulla e cerca di aiutarmi… ma io non ce la faccio, le gambe non mi tengono più e dentro di me sale incoscientemente anche la voglia di aspettare, di vedere che succede, di capire chi è stato caricato e perché. Eravamo tutti insieme, pacifici, già impauriti, perché non hanno attaccato i Black Bloc che abbiamo visto con i nostri occhi marciare ed organizzarsi con tutta calma? Io non ho spaccato vetrine, picchiato gente, bruciato macchine, e nemmeno i miei compagni… e allora perché siamo in questa situazione del cazzo?
Ora la dispersione è ancora più evidente: chi va a destra, chi a sinistra, chi di corsa lancia un urlo agli amici e cerca una via di fuga che porti magari alla mai tanto amata automobile.
Noi ci siamo allontanati, e cercando di non perdere la concentrazione, un po’ combattuti ma determinati, deci­diamo di proseguire. Ma abbiamo molta paura, perché ora camminiamo a gruppi isolati di tre, quattro, cinque, sei persone, e ci sentiamo più vulnerabili, ce ne rendiamo perfettamente conto: il nostro gruppo era anche la nostra forza, e ora non c’è più.
Imbocchiamo via Tal dei Tali (la toponomastica non è mai stata il mio forte) insieme ad altre decine di persone della Rete di Lilliput, ma ora non si vede nemmeno uno stri­scione, solo qualche maglietta qua e là. Ci hanno diviso, ce l’hanno fatta, ma noi proseguiamo, e fidandoci del no­stro peraltro scarso senso dell’orientamento, crediamo di essere sulla buona strada per ricongiungerci con il primo grosso spezzone del corteo.
Col cavolo: altri celerini a sorpresa… altra carica e altri la­crimogeni, altra gente che scappa e altra paura… stavolta becco un albero e mi ci metto proprio dietro; ho il torso nudo perché la maglietta mi serve per coprirmi la faccia e riuscire a respirare meno merda! Nessuno mi degna di uno sguardo e io non degno di uno sguardo nessuno. La tensione è tantissima, e non so per quale scherzo incon­scio riesco a pensare una cosa completamente scema: le mie poppe sono davvero minuscole, belline ma minusco­le.
Andres mi prende al volo e mi trascina via di corsa… stavolta siamo troppo isolati gli uni dagli altri e le botte possono arrivare da ogni parte.
Risaliamo un gran vialone e accelerando il passo rag­giungiamo quello che intuiamo sia il grosso spezzone del corteo. Ci mischiamo a loro e tiriamo il fiato… almeno ora non siamo più soli. Sembrerà poco, ma abbiamo la sensazione che il gruppo sia la nostra unica possibilità di sopravvivere. La nostra forza per resistere sempre.
Poco dopo ci troviamo in mezzo ad un altro fuggi fuggi… inaspettatamente come le altre due volte. Non sapremo mai se se era un falso allarme oppure una carica laterale a chi arrivava dopo di noi, anche se un ragazzo appolla­iato su un albero ci dice che in fondo al viale vede che le cariche continuano.
Cantiamo Bella ciao, è una delle mie canzoni preferite, ha un significato che va oltre il tempo, lo spazio e le nostre reciproche appartenenze, ma ora la canto in maniera differente, la canto determinata, rabbiosa, emozionata, partecipe delle disavventure del partigiano, responsabile di quello che sto dicendo… mi sento il fiore morto per la libertà. Sento Carlo che canta dentro di me, ed è felice perché lui vivrà per sempre, dentro di noi, attraverso le nostre idee.
Sono cresciuta, sono cresciuta inaspettatamente e indi­cibilmente da stamane a ora: ora ho degli altri buoni, ottimi motivi per non fermarmi, per combattere ciò che credo non sia giusto, per combattere chi mi dovrebbe difendere ed invece mette in pericolo la mia vita. Ora ho visto e ho toccato con mano, e non mi si venga a dire che lo sapevamo già: sono tutte stronzate. Finché non ti bruci, al fuoco non gli dai l’importanza adeguata. Finché non vedi il male, non ne conosci nemmeno i mille modi e sotterfugi per fregarti e stringerti in un angolo finché non muori asfissiato. Non pensi mai tanto intensamente e con convinzione alle situazioni estreme fino a che non ti ci trovi e non capisci che non c’è più via d’uscita.
E una via d’uscita da questi pensieri pesanti come macigni è alla finestra, alle tante finestre dei palazzi genovesi affacciandosi alle quali la gente ci applaude. E noi applaudiamo loro: qualcuno ha messo la bandiera della pace al balcone, qualcuno una bandiera di qualche partito o associazione, una grossa “A” rossa la fa da padrona sulla facciata di un signorile palazzo circondato da recinzioni invalicabili… un po’ strano associare le due cose, ma ora va bene tutto, tutto ciò che ci conforta e ci ricorda che siamo in tanti, tantissimi, e non ci possono vincere tutti.
Ripensiamo a tutto quello che ci è capitato e chiediamo alle persone alle finestre di darci acqua... e arrivano secchiate di acqua, e bottigliette... a far sbollire i nostri pensieri e a rinfrescare i nostri corpi, arsi da ormai sei o sette ore dal sole cocente di luglio. Le lacrime ci bruciano le guance… sarà la paura che se ne va? Oppure l’emozio­ne di sentirsi una comunità? O ancora la stanchezza, o la rabbia, o la frustrazione, o la gioia di avercela fatta? Non lo so… so che siamo in tanti a provare la stessa identica sensazione. Io sento le sensazioni degli altri. E li amo.
Un signore con una canna dell’acqua mi fa tornare alla realtà: cerca di mettere ordine nel gruppo di persone (me compresa) che si accalcano alla sua porta per avere qualche sorsata di acqua, quasi ci fosse indispensabile sciacquare le rivelazioni che ci erano rovinate addosso nell’arco di poche ore e che per noi, ora, erano, tutte insie­me, troppo insopportabili.
Risalendo il corteo incontriamo qualche Lillipuziano sparso qua e là, lo riconosciamo dalle magliette con il mondo con le ali… incontriamo tanti, tantissimi stranie­ri… socialdemocratici tedeschi, socialisti dell’est, comu­nisti da ogni dove, Attac France, e dopo un po’ sentiamo, liberatoria, la voce di Vittorio Agnoletto: è finita… o è iniziata.
Siamo arrivati a destinazione, in piazza Ferraris… questa è la nostra destinazione di oggi, ma domani andremo molto, molto più lontano. Domani sapremo cosa ci aspetta, a differenza di oggi, sapremo che la strada è lun­ga e piena di insidie, di trabocchetti, di giochi di potere tali da andare oltre la nostra immaginazione.
Riusciamo trovare un buco per terra di fianco al palco e ascoltiamo Agnoletto, stanco ed arrabbiato ma determi­nato, ed una ragazza curda che ci parla dell’oppressione del suo popolo… ha la voce spezzata dall’emozione quando si unisce a noi cantando «Kurdistan libero!». Le lacrime oggi la fanno da padrone… l’acqua la fa da padrone: il mare cosparso di gommoni dei corpi speciali pronti ad attaccarci, l’acqua gettata dalle finestre di Ge­nova per rinfrescare chi aveva dato davvero tutto… poco ma tutto. L’acqua delle lacrime che scendevano copiose, liberatorie e roventi.
Ma non è finita, o almeno, non per tutti: una ragazza ci avvicina e ci consiglia su dove e come defluire, quali zone evitare perché ci sono scontri in atto tra le forze dell’ordine ed i manifestanti: ma quali manifestanti? Dei nostri? Ancora? Allora, se scontri devono essere, che scontri siano, e che i miei compagni gli rompano il culo anche da parte mia! Eccheccazzo! Va bene essere pacifisti, ma se attenti alla mia incolumità senza che io abbia fatto nulla, dico nulla che possa averti provocato, infastidi­to, disturbato o fatto scattare il senso del dovere nel far rispettare la legge, allora non mi va più bene! Se non ho nemmeno più il diritto di manifestare la mia opinione e di cercare le alternative al disastro planetario che c’è in atto, allora quali strumenti ho per “essere”? Farmi spac­care la testa come è già capitato ad altri compagni sempre in questi giorni? Non credo che rientri nella mia natura... l’essere umano, per natura, ha impulsi istintivi dettati dalla consapevolezza del dover e voler sopravvivere. E nessuno può dimostrare il contrario.
Stiamo seduti da un po’… io non connetto davvero più. Ci rialziamo e dopo pochi passi chiediamo indicazioni ad un signore che fuori da casa sua fa da “cartina strada­le” per altri compagni (sono parole sue… ci fa piacere ascoltarlo).
Finalmente abbiamo appena sentito Donatella e Aurora che ci aspettano da tempo alla macchina, e che purtroppo dovranno aspettare quasi due ore affinché le raggiun­giamo: io mi sto trascinando appoggiandomi ad Andres perché la fatica, per le mie gambe, è stata davvero troppa oggi. A volte cammino fingendo di stare bene, a volte piagnucolo, a volte grido… un po’ per il dolore lancinan­te e un po’ per la paura, l’emozione e la rabbia che mi risaltano fuori quando meno me lo aspetto, anche quan­do percorriamo via Tolemaide e vediamo le macchie di sangue per terra, tante, troppe chiazze di sangue di nostri compagni, di gente come noi che è stata aggredita e picchiata senza motivo, e di chi è stato ucciso. È anche sangue nostro e ci sembra di sentire il dolore.
Fino a poco fa mi sentivo un po’ un’eroina: ora mi sento indifesa, sola, incosciente di quello che davvero succede nel mondo, addolorata e molto debole. Non so dove ho trovato la forza per andare avanti… forse è stato qualcosa dentro, qualcosa che sta dentro tutti noi e che ci spinge sulla strada giusta: dovevamo capire, e per capire era necessario vedere. Il saggio sulla Montagna Sacra dice “Per crescere, i tuoi occhi devono guardare dove non vedono.” Oggi in centinaia di migliaia abbiamo guardato dove i nostri occhi non vedevano.
Camminiamo e la strada pare allungarsi sotto i nostri passi. Continuiamo a interrogarci su come sia possibile che la gente creda a “loro” e non a “noi”: già, perché da oggi si sono ben delineati due schieramenti in conflitto. Ma mentre proseguiamo ci conforta il fatto di incontrare lungo il tragitto tanti genovesi giovani, pensionati, inse­gnanti, casalinghe e rappresentanti di tutte le professioni e le generazioni possibili, che ci dicono in mille modi che lo sanno che siamo pacifici, che sono d’accordo con noi, che il mondo che vogliamo noi lo vogliono anche loro, per noi e per i nostri fratelli in tutto il mondo… Lo sanno cosa ci hanno fatto le “forze dell’ordine”… o del disor­dine, chiedo io? Ogni tanto un sorriso ci distende e ci incoraggia a proseguire. È troppo importante non sentirsi soli… lo sanno tutti che ci spiace immensamente che sia andata così, che ci spiace immensamente che la città sia mezza distrutta. Ci spiace che Carlo sia morto, ci spia­ce di essere cresciuti così di colpo, e ci spiace che, tutto sommato, l’Italia ed il mondo non sapranno la verità. O forse sì…
Ma sanno che lo rifaremmo, sanno che se qualcuno spe­rava di tarparci le ali, si sbagliava: potranno accusarci di quello che vogliono, finché avranno fiato, ma noi ormai sentiamo crescere dentro di noi il diritto ma soprattutto il dovere di manifestare le nostre idee e di batterci per un mondo migliore.
Sì, da oggi sappiamo di essere parte integrante di qualco­sa di speciale, e se sono riusciti a rinchiudere quegli otto grazie ai container, non riusciranno mai a rinchiuderci le nostre idee. Dietro a nessun container e dietro a nessun muro.
Brebbia, 23 luglio 2001.

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